Rudolf, ancora e per sempre

Ci sono persone rare perché lasciano un segno indelebile, anche dopo la morte.

Rudolf Nureyev è una di queste.

Carismatico, affascinante, irraggiungibile ha dominato la scena mondiale con la sua arte infinita.

Protagonista assoluto in palcoscenico, come nella vita, alternava la sua irruenza/impetuosità/furia selvaggia/passione sanguigna a momenti di tenerezza nascosta, di vulnerabilità improvvisa.

La sua è la storia di una leggenda della danza.

Nato su un treno vicino al lago Bajkal il 17 marzo 1938 – la madre era partita per raggiungere il marito militare – sfidò qualunque ostacolo pur di affermare la sua travolgente voglia di ballare.

La sua infanzia non fu molto felice, anche gli anni dell’adolescenza, nel dopoguerra, non furono certo segnati dall’abbondanza. Cominciò a studiare da dilettante nei corsi di danza folkloristica e il suo passatempo preferito, fin da piccolo, fu guardare i treni che andavano e venivano da Ufa, la città dove viveva. Un presagio, un segno del destino?

Negli anni successivi, vincendo l’ostilità del padre, ottenne il permesso di studiare danza classica. Si trasferì a Mosca e poi a Leningrado, sostenne un esame per essere ammesso alla Scuola del Kirov, la più blasonata, la più difficile. Lo presero al sesto corso. “Hai talento – gli dissero – ma hai bisogno di molta, moltissima disciplina”. In seguito diventò solista della compagnia ma proprio per il suo carattere ribelle, allergico alle regole imposte, durante una tournée a Parigi, decise di non tornare mai più in Russia. Gli stava stretto un paese che non conteneva l’ampiezza delle sue vedute artistiche, la sua curiosità, la sua voglia di imparare, approfondire, ricercare… Elementi significativi di tutto il suo percorso: sulla scena e nella vita.

Senza un soldo in tasca, senza amici a cui appoggiarsi, senza alcuna certezza di sfondare, Rudolf decise in pochi minuti il suo destino.

Da allora in poi la sua carriera fu un susseguirsi di trionfi che sono rimasti scolpiti nella storia della danza. Primo fra tutti, l’incontro con Margot Fonteyn, che stravolse ogni ipotetica immaginazione.

Lei, famosissima, era già quasi alla fine della sua luminosa carriera, lui agli inizi del suo percorso, sconosciuto al pubblico occidentale. Unico segno distintivo: una tecnica fuori dal comune con giri e salti mai visti prima. Quel che rese la loro coppia sublime e inarrivabile fu la mescolanza perfetta dei loro temperamenti; lei interiore, controllata; lui ardente, esplosivo.

Bastò poco per far nascere la leggenda del “tartaro volante”.

Era una persona colta, curiosa, sensibile, dotato di un raro carisma.

Contornato da ricchi e potenti, capi di stato e massime cariche, signore del bel mondo e fanatici, nel profondo del suo cuore non smise mai di pensare alla sua mamma, ai suoi maestri, alla sua terra.

Perché, per strane, incomprensibili e ottuse imposizioni di regime, da quando il 17 giugno 1961 si tuffò nelle braccia dei gendarmi all’aeroporto francese Le Bourget, non poté mai più riabbracciare la sua famiglia, neanche scrivere o ricevere lettere.

Un abominio vergognoso per un uomo che era “solo” un artista.

“Ringraziamo il cielo – diceva – che ho un po’ di temperamento. Se non si ha passione nelle cose ci si lascia semplicemente vivere”. La verità è che a lui non interessava ‘quanto’ danzare ma ‘come’. Aveva una tecnica straordinaria ma ciò che lo distingueva dagli altri era la capacità di personalizzare al limite estremo la sua interpretazione. Ballava anche con il viso, non sbagliava mai espressione, sapeva esprimere il tormento e la gioia, il furore e la malinconia, come nessun altro. Fece del primo ballerino un protagonista moderno. C’era qualcosa, nel suo essere artista, che seduceva all’istante: la sua dedizione assoluta, il suo legame carnale con il palcoscenico.

Si concedeva senza remore, aveva una personalità magnetica di fronte alla quale tutti restavano incantati.

Ninette de Valois – fondatrice del Royal Ballet di Londra – che fu la prima ad offrirgli una vera opportunità di lavoro dopo la fuga a Parigi, disse di lui:” Rudolf è un geniale mascalzone, che rispetta solo chi ha paura di lui. Durante le classi ogni tanto ero costretta a colpirlo col bastone. Ma che artista! Trasformava tutto in metallo prezioso, niente di quello che faceva era vecchio, ridicolo, superato”. Grazie a lui Giselle, Il Lago dei cigni, La Bayadère, Raymonda non furono più noiose ripetizioni accademiche del ‘bello stile’ ma acquisirono una forza maggiore, con sfumature incisive e caratterizzazioni precise di ogni personaggio.

Da allora in poi la sua vita è stata un viaggio continuo, in giro per il mondo, nei teatri più importanti, con le compagnie più prestigiose e le partners migliori.” Un ballerino deve volare” – diceva, e gli aerei (di cui aveva paura) lo portavano avanti e indietro per il pianeta.

Definito ‘uno dei più grandi ballerini del XX secolo’, con Vaslav Nijinsky, cominciò a lavorare con i coreografi del suo tempo e la sua arte, sublime, divenne sempre più ricca, saziando la sua fame di curiosità.

Creò nuove versioni di balletti – La Bella Addormentata, Schiaccianoci, Il lago dei cigni, Don Chisciotte, La Bayadère, Romeo e Giulietta, Cenerentola – tecnicamente impervie (non sempre riuscitissime e armoniose dal punto di vista coreografico), che mettevano in risalto la danza e soprattutto i giovani, con un’attenzione particolare ai ruoli maschili, sviluppati con una maggiore considerazione rispetto ai canoni tradizionali. Arrivò spesso ad infrangere tabù gerarchici e a sconvolgere situazioni congelate che avevano poco a che fare con l’arte. Rifiutò partners per le quali non aveva stima o simpatia, promosse artisti fuori da ogni regola sindacale – clamorosa la nomina di Sylvie Guillem a étoile dell’Opéra di Parigi, a soli diciannove anni – creò dei talenti e diede sempre l’esempio in sala prove, prima che in scena, di una instancabile professionalità, ad un passo dalla perfezione. Attento ai gusti del pubblico, inventò lo spettacolo “Nureyev and friends” e cominciò a girare il mondo con un repertorio di qualità e soprattutto novità. Teatro, cinema (memorabile il suo ruolo di Rodolfo Valentino, nell’omonimo film di Ken Russel del 1976), televisione (partecipò ad alcuni episodi della celebre serie The Muppet Show) Rudolf era ovunque, attraversando il mondo della danza lasciando un segno indelebile.

Nel 1983 fu nominato direttore della Compagnia dell’Opéra di Parigi, che insieme al Royal Ballet di Londra rappresentò per lui un punto di riferimento importante, impegno che portò avanti fino al 1989 formando una intera generazione di ballerini meravigliosi in un clima di rinnovamento artistico. Nel 1987, su invito dell’allora presidente Michail Gorbačëv, ritornò in Russia con un clamore mediatico senza precedenti, per riabbracciare i familiari (la madre, malata da tempo, non lo riconobbe e dopo poco morì) e un pubblico numeroso che, negli anni, ebbe poche notizie del suo immenso successo in Occidente, perché tutto ciò che lo riguardava fu abilmente censurato dall’ex regime comunista che lo condannò per alto tradimento. Si esibì al Teatro Mariinsky interpretando La Sylphide, e per l’occasione si registrò un’affluenza di pubblico da record.

 

Cavaliere della Legione d’Onore (il più alto riconoscimento civile conferito in Francia) nel 1988, Rudolf continuava ad ampliare i confini della danza. Lottava contro regole e convenzioni, ansioso di cambiare tutto.

La sua ultima apparizione in scena, l’8 ottobre 1992, fu all’Opéra di Parigi, al termine della prima della sua versione de La Bayadère, in un tripudio di applausi. Una lunghissima, interminabile ovazione, tributata da un pubblico che lo osannava, che lo aveva amato profondamente nel corso della sua carriera sensazionale. Rudolf, visibilmente commosso e consumato dalla lunga malattia (i primi sintomi si erano manifestati nel 1982 eppure aveva continuato a danzare col coraggio di un guerriero) sorrideva, con lo sguardo fiero di sempre. Il Ministro della Cultura francese, Jack Lang, lo insignì della più alta onorificenza culturale col titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere.

Nel giro di poco tempo la situazione peggiorò drammaticamente.

Le esequie, a dir poco solenni, furono organizzate nel foyer dell’Opéra di Parigi alla presenza di personalità illustri, appassionati di danza, amici di sempre e una folla immensa che voleva testimoniare affetto e riconoscenza. La sua salma riposa nel cimitero ortodosso di Sainte Geneviève des Bois, appena fuori Parigi, in una tomba che è la riproduzione esatta del drappeggio di un tappeto kilim, creata a mosaico dallo scenografo Ezio Frigerio (da grande ed esperto collezionista d’arte, nella sua casa di Parigi – dove ho avuto la fortuna di andare – era un concentrato di mobili antichi, tappeti persiani, tele d’autore, bronzi e meraviglie varie).

 

Tra le tante partners, Carla Fracci è stata quella con cui ha danzato di più. “Era una persona molto speciale. Un ballerino immenso, dal carattere difficile, con una personalità ineguagliabile. Amava la competizione e la sfida, non so quante volte si sottraeva all’appoggio, togliendo la mano o venendo meno a quello che una ballerina si aspetta normalmente dal proprio partner. Non so perché facesse queste cose, credo per sfidare la compagna di scena. Aveva un amore-odio per le ballerine, voleva essere lui il protagonista assoluto…Per me ha avuto sempre molto rispetto, mi riconosceva una grande forza. Il rigore che lui esigeva da tutti era un impegno interiore. Rudy era lì, dentro il suo personaggio, fin dalla prima entrata in scena e per tutta la durata dello spettacolo. Rigore voleva dire essere sempre presente a se stessi e non abbassare mai la guardia. Con l’aplomb fisico e intellettuale, che è necessario per avvicinarsi alla perfezione.”

 

Con Napoli aveva un rapporto speciale, conteso dai teatri di tutto il mondo fu ospite tante volte del Teatro San Carlo, dove registrava ogni volta il “tutto esaurito”: indimenticabile nel 1982 il suo Don Chisciotte e poi Cenerentola (nell’aprile 1991), accolti dal pubblico napoletano con boati di applausi infiniti.

L’ultima volta che ballò in Italia ne L’Après-midi d’un faune – in coppia con Patrizia Manieri, étoile del lirico napoletano –  fu nell’agosto del 1991 alla Certosa di Padula dove era ospite per due spettacoli con la Compagnia del Teatro San Carlo.

Poco tempo prima si era esibito nel ruolo di direttore d’orchestra, nello splendido scenario di Villa Rufolo a Ravello. La musica gli era sempre stata nel sangue.

Negli ultimi anni, scelse l’isola de Li Galli, di fronte a Positano, per vivere con i “piedi nell’acqua”, in una serenità almeno apparente. Faceva la sbarra nella torre alta, in una stanza disadorna ma piena di specchi, col rumore del vento e del mare al posto della musica.

Per cinque anni, Napoli divenne il suo punto di riferimento e l’isola fu il suo “luogo dell’anima”.

Il mare lo aveva sognato da sempre ed era molto simile al suo temperamento.

Stimava molto Vittoria Ottolenghi – autorevole critico di danza –  che lo aveva seguito in lungo e in largo in giro per il mondo. Una volta, quando era direttore dell’Opéra di Parigi, le disse:” Guardami bene, così come mi vedi ora – tutto sudato, con una tuta sportiva consumata, il mio vecchio berretto di lana in testa e pantofole di feltro –  sto in teatro tutto il giorno, tutti i giorni. Non mi muovo mai dalla sala prove, dalla classe o dal palcoscenico. E sto sempre con i ballerini. Ho un ufficio, certo, e molti collaboratori. Ma in quell’ufficio non ci ho mai messo piede e i collaboratori vengono qui a chiedermi le cose e a ricevere le istruzioni. Io dirigo da qui. Non delego la danza, mai. La dimostro, l’insegno e la vivo personalmente nei minimi dettagli.”

L’inquietudine lo divorava. Avido di cultura, avido di vita. Una vita che aveva imparato a prendere a morsi e che ad un certo punto si è spezzata fermando il corpo del più grande ballerino del secolo ma non interrompendo la forza della sua presenza, l’energia, la bellezza, la bravura, l’arte infinita che ha pervaso ogni suo più piccolo movimento.

Rudolf è stata la stella più luminosa del firmamento della danza, ne ha allargato i confini e ha lasciato dietro di sé una scia indelebile. Il Teatro San Carlo gli rende omaggio con una serata di gala – ad ottanta anni dalla sua nascita e venticinque dalla sua scomparsa, che ha lasciato un vuoto incolmabile – con molti dei titoli che fanno riferimento alla sua luminosa carriera.

“Poiché si deve morire – diceva – tanto varrebbe farlo su un palcoscenico, magari nell’ultimo atto de Il lago dei cigni. E’ davvero orribile invecchiare.” E ancora: “Qualsiasi cosa accada – rivoluzione, guerra, capovolgimento di ideologie, di religioni, di tutto – io devo continuare a danzare, in ogni caso, fino all’ultimo respiro.”

E così è stato.

Dal 6 gennaio 1993, non c’è più.

Rudolf, re della danza.

Elisabetta Testa

 

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