Giuseppe Picone, "in scena ci vogliono carisma e passione"

Ha cominciato alla Scuola di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, sotto la direzione di Zarko Prebil, poi ha continuato all’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Quando aveva sedici anni Pierre Lacotte lo ha portato a Nancy, l’anno dopo era a Londra e a ventuno anni Giuseppe Picone è arrivato a New York dove, in pochissimo tempo, è diventato una étoile. Bellezza e talento, forte sensibilità e tecnica strepitosa, gli hanno spalancato le porte di una carriera piena di successi.

Dopo tanti trionfi in America come mai ha deciso di Tornare in Europa?

C’è una grande differenza tra i due paesi e anche la danza ne risente. In Europa la danza ha una maggiore considerazione, in America si dà più importanza al jazz o al musical. La mia esperienza all’ ABT è stata certamente intensa, i due mesi di spettacoli al Metropolitan di New York erano attesi da noi ballerini con grande entusiasmo, c’era sempre tantissimo pubblico poi però per altri dieci mesi si andava nelle piccole città, con lunghe tournées in paesi lontani, prove o addirittura niente!

Chi ha inciso nel suo percorso artistico?

Carla Fracci, Ekaterina Maximova e Vladimir Vasiliev: lavorare con loro mi ha dato una grande spinta. Li ho incontrati quando avevo undici anni, in seguito le nostre vite professionali si sono intrecciate.

Quali sono state le difficoltà nella sua carriera?

Ho fatto molti sacrifici: lasciare la propria casa, la famiglia, le certezze a cui si è abituati per mettersi in discussione, cercando di migliorare e di andare avanti, credo non sia facile per nessuno.

Che cosa le piace del suo lavoro?

Il fatto che sono nato per fare il ballerino, in palcoscenico mi sento a mio agio e riesco a creare qualcosa di meraviglioso. Ma è un lavoro troppo duro che, soprattutto in Italia, non dà proprio soddisfazioni. Non sarò mai come un danzatore francese, inglese, russo…ci vuole molta passione per continuare ad andare avanti, la danza nel nostro paese è ancora poco considerata.

Secondo lei è più importante la tecnica o l’interpretazione?

L’interpretazione! Anche se ci sono alcuni balletti come Ciajkovsky pas de deux o Grand pas classique che richiedono una tecnica molto forte. Avevo solo venticinque anni quando ho interpretato il ruolo di Onegin a New York, un ruolo difficile che di solito si affronta in un’età più matura perché oltre alla tecnica richiede una profonda interiorità. La mia interpretazione al Metropolitan ha riscosso un successo così grande che ho avuto una standing ovation, è stato molto emozionante.

Preferisce lo stile classico o moderno?

Decisamente quello classico però credo di avere buone possibilità anche nel moderno. Ho danzato come primo ballerino in coreografia di Twyla Tharp, Paul Taylor e Mark Morris e il pubblico americano è impazzito. Tempo fa, a Londra, anche Mauro Bigonzetti ha creato per me una coreografia contemporanea. I balletti di George Balanchine, per esempio, sono stupendi ma praticamente astratti, quindi mettono in risalto il corpo, le linee, la pulizia tecnica e lo stile coreografico ma non c’è interpretazione. A me piace entrare nel personaggio, farlo crescere e poi ho un fisico particolarmente adatto al repertorio classico, a sedici anni mi definirono “il piccolo principe”.

Che cosa non deve mancare secondo lei ad un ballerino?

Durante lo studio quotidiano, in sala, la pulizia tecnica ma in scena ci vogliono carisma e passione. Chi non ce l’ha, ha poche speranze…ci sono così tanti ostacoli da superare che fa paura solo il pensarci. La tecnica è importante ma rischia di diventare solo acrobazia se si porta in scena senza interiorità.

C’è un ruolo che predilige?

In verità ne ho due: uno è Romeo, l’altro è Albrecht, nel balletto Giselle. Ho un temperamento romantico ma anche “napoletano”, mi piace molto anche Il Corsaro che ho portato in scena dopo soli otto mesi che ero in America.

Che effetto le fa tornare a ballare a Napoli, al Teatro San Carlo?

E’ un ‘esperienza emozionante, ogni volta. Tutta la mia carriera è cominciata in questo teatro stupendo, uno dei più belli del mondo. Quando ero ancora allievo della Scuola di Ballo fui scelto da Carla Fracci per il balletto Nijinsky diventando la mascotte della compagnia, l’enfant prodige.

Che cos’è il talento?

Una cosa che non si compra…o c’è o non c’è. Chi ha talento catalizza l’attenzione del pubblico, anche se non ha un corpo particolarmente dotato.

E’ambizioso?

No. L’ambizione porta a scendere a compromessi e io non ho mai voluto farlo.

Che cos’è la danza per lei?

Amore e odio. Ma anche gioia, ritmo, musica, emozione. Quando sarà arrivato il momento di smettere lo farò ma nessuno potrà mai impedirmi di danzare per me stesso, fin quando avrò una stanza, un parquet e la musica…continuerò a ballare! La danza non mi ha mai tradito. E’ passione, amore, disciplina e sacrificio.

Elisabetta Testa

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