Teatro San Carlo: Les Sylphides e Napoli

Ha vinto la danza. Con la bellezza e la capacità multiforme di un’arte antica e raffinata, espressiva e comunicativa, capace di trasportare lo spettatore da paesaggi lunari, sognanti, che rievocano l’atmosfera romantica per eccellenza all’allegria scoppiettante e contagiosa della tarantella con tanto di Vesuvio sullo sfondo. Un tuffo nella storia di un popolo – quello napoletano – che della felicità (oltre all’immenso patrimonio culturale), del calore e del colore, ne ha fatto una filosofia di vita.

In scena al Teatro Politeama, per il terzo appuntamento in calendario, la compagnia del Teatro San Carlo diretta da Clotilde Vayer ha presentato due titoli a dir poco incisivi nel repertorio del balletto: Les Sylphides (nella foto di Luciano Romano) e Napoli.

Nato col titolo di Chopiniana – debuttò al Teatro Mariinsky di Pietroburgo il 23 febbraio 1907 – in omaggio alle meravigliose musiche di Chopin che comprendono un preludio, un notturno, valzer e mazurke, il balletto divenne Les Sylphides (da non confondere con La Sylphide interpretato da Maria Taglioni e considerato il primo balletto romantico, 1832) e fu rappresentato a Parigi, al Théâtre du Châtelet il 2 giugno 1909, durante la prima stagione della compagnia dei Balletti Russi dell’impresario Sergej Djagilev, con scene e costumi di Alexandre Benois. Tra gli interpreti: Anna Pavlova, Tamara Karsavina, Vaslav Nijinsky.

Nomi che sono pietre miliari, diamanti luminosi della storia della danza, incastonati nel tempo e arrivati fino a noi come memoria di un’epoca favolosa in cui la danza aveva la capacità di produrre ARTE e CULTURA allo stato puro. La coreografia di Michel Fokine – uno dei geni del Novecento, colui che ha creato La morte del cigno (iconico assolo che non c’entra niente con Il lago dei cigni), Shéhérazade, L’uccello di fuoco, Petrushka, Le Spectre de la rose e tanto altro – è concepita come un tableau vivant, un quadro vivente che comincia e finisce nello stesso identico disegno. Al centro, una danza sublime, delicata, eterea, stilizzata ma con sprazzi di allegria espressa in salti impervi anche perché nulla deve trapelare dello sforzo fisico.

Venti elementi – diciannove silfidi e un poeta alla ricerca del suo ideale femminile – per un balletto astratto che diventa il punto di partenza per nuove atmosfere, nuove creazioni, in cui tutù e coroncine lasceranno il posto a ben altro. La visione omogenea del Corpo di ballo (qualche piccola differenza nelle altezze poteva forse essere resa meno evidente) è stata di grande effetto anche se l’atmosfera magica è stata in parte sminuita dalla mancanza assoluta di un fondale (già la musica era registrata). Ottima prova quella dei protagonisti a partire da Luisa Ieluzzi, étoile e fiore all’occhiello della compagnia, sempre all’altezza del ruolo nell’impegno tecnico preciso e nell’intensità espressiva. Accanto a lei Alessandro Staiano e Anna Chiara Amirante, anche loro étoiles e Claudia D’Antonio, tutti elementi di punta dell’ensemble napoletano.

Talento immenso quello di August Bournonville, danese, classe 1805, che ha saputo creare molto di più di qualche balletto celebre (in particolare Napoli e Sylfiden, la cui versione è del 1836). La sua tecnica è davvero un punto di arrivo per velocità, salti acrobatici, batterie complicate, coordinazioni particolari e chi più ne ha più ne metta. Napoli, ovvero il pescatore e la sua sposa è stato rappresentato al Teatro Reale di Copenaghen il 29 marzo 1842 (un anno dopo la messa in scena di Giselle) sulle musiche di Paulli, Helsted Gade, Lumbye, a dir poco caratteristiche e che ben sottolineano l’azione danzata con tutta la sua gioia esplosiva. A partire dal passo a due tratto da Infiorata a Genzano, con i due protagonisti Candida Sorrentino e Danilo Notaro – étoile della compagnia, impeccabile nella difficile esecuzione tecnica – si arriva dritti al quadro finale con il celebre Passo a sei, con tutte le variazioni e la tarantella finale: sette minuti di divertimento allegro e coinvolgente al ritmo sfrenato dei tamburelli. In gran forma Salvatore Manzo, sempre a proprio agio tra batterie, giri e salti veloci, ben accompagnato da Pietro Valente e Giuseppe Aquila con Martha Fabbricatore, Irene De Rosa, Francesca Riccardi e Vittoria Bruno.

Resta il dubbio della scelta dei costumi firmati da Giusi Giustino che per il Teatro San Carlo è un punto di riferimento di fantasia e bravura. Colori tenui a tratti pallidi, semplici/semplicissimi senza un nastrino, un orpello di qualunque genere per le donne, con pantaloni neri a tubo e camicia a maniche lunghe per gli uomini. Poco colore e timida connotazione di uno spaccato della Napoli ottocentesca.

Al di là della danza, parte del genio di Bournonville è anche nelle parole che ci ha lasciato:” Per concludere, raccomanderò ai miei allievi e a tutti coloro che esercitano la faticosa professione della danza, di guardare alla loro arte come a un elemento costitutivo del regno del bello, come un ornamento utile alla scena, e di reputare il teatro un glorioso fattore rappresentativo della vita intellettuale delle nazioni”.

Elisabetta Testa

 

 

 

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