Edmondo Tucci, "la danza deve sempre raccontare qualcosa"

Schivo, riservato, idealista, da sempre ha una predilezione dichiarata per la danza contemporanea.

La bellezza del suo corpo fa da scudo ad un’anima introversa, profonda, gentile, densa di sfumature. Padre di due gemelli, Matteo e Viviana, Edmondo Tucci – primo ballerino del Teatro San Carlo (nella foto di Francesco Squeglia) – ha interpretato tanti ruoli diversi nell’arco di una carriera lunga ed intensa, spaziando da balletti classici a quelli neoclassici fino ad un linguaggio più moderno con non poche incursioni nella coreografia.

Com’è entrata la danza nella sua vita?

Nel modo più semplice…mia sorella ha cominciato a studiare danza e io l’ho seguita. Mi piaceva molto la musica , ho avuto la fortuna di avere dei buoni insegnanti poi mi sono perfezionato in America. Sono sempre stato attratto dalla danza moderna e contemporanea. Ho deciso di tornare in Europa perché sentivo il richiamo della nostra cultura.

Quali sono state le difficoltà?

Ne ho avute tante, da quelle fisiche – per un corpo non particolarmente dotato – a quelle comportamentali. All’inizio non ero molto concentrato nello studio e la disciplina della danza è molto rigida. Ho dovuto lavorare sodo e tutto quello che ho ottenuto è stato strappato alla natura, ho timore di pensare che forse, andando avanti, ne pagherò le conseguenze, ho dovuto soffrire e penare per ottenere dei risultati. La mia famiglia non ha mai ostacolato la decisione di diventare un ballerino anche se ha cercato di deviare i miei interessi sull’università e altri progetti. il mio percorso interiore invece è fatto di insicurezza, di incertezza pensando al futuro. Il nostro è un lavoro in qualche modo intimo, egoista, che si basa sulle sensazioni personali, sulla percezione del proprio corpo e quindi anche sull’auto-convincimento. Bisogna credere molto in se stessi per andare avanti. L’Italia non è un paese che investe tempo, soldi e attenzione nell’arte, ci vuole molta volontà e un pizzico di fortuna. Superate queste incertezze iniziali, il destino ha incastrato tutto e come un piano in discesa sono arrivato fino ad oggi.

Come vive la situazione della danza all’interno del teatro?

Non ci sono spazi fisici per la danza e quindi spesso ci viene negata la possibilità di esprimerci attraverso la nostra arte, è una situazione frustrante, da una parte la volontà di andare avanti, dall’altra l’impossibilità reale di farlo. In un certo senso siamo come dei cavalli di razza, allenati per correre ma se vengono rinchiusi in uno spazio ristretto si alienano, perdendo di vista l’obiettivo primario: correre. Noi ballerini ogni giorno dobbiamo tenerci in forma facendo la classe quotidiana per poi andare in scena dopo due o tre mesi…è una situazione assurda, demotivante, sia fisicamente che psicologicamente. E’ facile lasciarsi andare ma poi si innesca un meccanismo crudele.

In tanti anni lei ha lavorato con molti danzatori e coreografi di prestigio, c’è qualcuno di loro che ha lasciato il segno nel suo percorso?

Si, anche se i ballerini della mia generazione non hanno avuto il piacere di incontrare Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Mikhail Baryshnikov, però ho avuto la fortuna di lavorare con Carla Fracci, che è un personaggio immenso. Chi ha lasciato il segno dentro di me è stato un ragazzo giovane, venuto al Teatro San Carlo su proposta di Roland Petit: Nikita Dimitrievsky, il quale nella sua ingenuità era veramente geniale. Ha utilizzato la musica di Bach in un modo assolutamente unico, lasciandomi la sensazione forte di sentire e capire la musica dal di dentro. Ricordava molto George Balanchine.

Nel 2003 è stato nominato Primo ballerino, che cosa significa per lei questo ruolo?

Un punto di svolta dal lato artistico perché ho potuto scegliere che cosa interpretare, i ruoli devono essere cuciti addosso. Ho incontrato coreografi prestigiosi che hanno creato su di me dei ruoli, far parte del processo creativo è una sensazione unica. Oggi la mia carriera volge al termine, tra circa quattro anni smetterò di ballare. Ho danzato tante cose belle, interessanti, la maturità artistica e l’esperienza mi hanno fatto crescere consentendomi di interpretare ogni ruolo in maniera più profonda. Essere Primo ballerino significa avere un impegno artistico molto intenso, possedere una tecnica solida e poi sviluppare la tenuta del ruolo, dall’inizio alla fine dello spettacolo, dimostrando di avere qualcosa in più. Sono l’ultimo dei primi ballerini nel senso che sono l’unico della compagnia… I ruoli oggi vengono snaturati, le categorie all’interno di un corpo di ballo vengono dimenticate, scavalcate, succede… Ci sono persone che ricoprono ruoli improvvisandosi, senza avere valenze specifiche, competenze tecniche.

Credo molto nel Teatro San Carlo, la mia carriera si è svolta per la maggior parte all’interno del lirico napoletano, pur avendo avuto tantissime altre proposte sono molto legato alla mia città. Ho una grande responsabilità nei confronti del teatro e della compagnia che cerco di onorare ogni volta che ballo, anche se diventa sempre più difficile, per una questione di età, andare in scena al meglio.

Lei ha avuto una formazione classica ma ha sempre dimostrato una predilezione per lo stile contemporaneo, da che cosa nasce?

Ho studiato entrambi ma sono attratto dalla sperimentazione coreografica, la danza contemporanea è l’espressione del nostro tempo, mi dà  una grande libertà di espressione prima che di movimento. Forse mi dà maggiori opportunità di portare in scena delle sensazioni legate alle emozioni. Conosco molto bene i classici, interpretati tante volte, e questo è un valore aggiunto. La conoscenza della danza classica porta a sperimentare il nuovo, è quello che tutti i coreografi e gli artisti del ‘900 hanno fatto: partire dall’arte classica per arrivare a quella contemporanea, sperimentando nuovi linguaggi espressivi, scavando nell’animo umano. Il contemporaneo mi è particolarmente congeniale, lo sento molto vicino alla mia interiorità riesco a  tirare fuori i sentimenti più profondi con un linguaggio moderno. Alcuni coreografi ospiti del Teatro San Carlo si sono ‘divertiti’ a creare su di me, trovando un terreno fertile. Non ho mai storto il naso o preso sotto gamba pensando che fosse una danza minore, anzi è un valore aggiunto. Ho fatto tesoro di tutte le opportunità avute.

Com’è nato l’interesse per la coreografia?

È un’esigenza interiore. Non tutti i ballerini diventano coreografi, maître de ballet o assistenti. Esprimersi attraverso la creazione di movimenti, passi, stati emotivi, idee, è una necessità. Ho firmato vari lavori per il Teatro San Carlo, l’ultimo è stata una coreografia per Luisa Ieluzzi e Alessandro Macario, al gala della Scuola di Ballo dedicato ad Anna Razzi.

E’ interessante creare quando si ha qualcosa da dire, l’aspetto più stimolante è l’infinita capacità di movimento del corpo umano. Sono stato influenzato tantissimo da Mauro Bigonzetti, prima di avere un contratto fisso al San Carlo,sono stato all’ATER per un mese ad imparare il suo repertorio. Sono attratto dalla fluidità del movimento, mi piace sviluppare sensazioni che mi appartengono, in una continua ricerca. Non credo che esista l’astrattismo nella danza, anche se in passato ci sono stati degli esempi, io penso che la danza debba sempre raccontare qualcosa, il gesto parla. Anche in una variazione di due minuti il ballerino deve essere un interprete, deve raccontare una storia, esprimere delle sensazioni, comunicare un messaggio.

Che cosa ama e che cosa odia del mondo della danza?

Amo la bellezza, l’arte, la necessità di abbinare al movimento la musica, le scene, la completezza, la complessità di espressione, la preparazione degli spettacoli, le linee armoniose di un corpo, la fluidità. Non sopporto l’ambiente, un po’ perche sono misantropo, un po’ perche la profonda insicurezza dei ballerini si riversa sul bisogno continuo di approvazione. Non sopporto la frustrazione di molte persone che cercano di prendere parte marginalmente alla vita di un ballerino professionista entrando in meriti che non gli competono, arrivando a critiche fuori luogo. Oggi i social network portano un po’ tutti ad essere giudici, a criticare, ad esprimere un giudizio. Questo non può succedere.  Credo che la persona deputata a scrivere, a raccontare lo spettacolo per come si è visto, a chi non era presente in teatro, abbia una grande responsabilità, investita dalla consapevolezza della propria cultura. Penso che una critica negativa possa essere capita e accettata dall’artista se fatta da una persona competente. Oggi c’è tutto un sottobosco che pullula ‘alla ricerca di dieci minuti di notorietà’, citando Andy Warhol.

Che cos’è l’umiltà?

Uno degli aspetti fondamentali prima per una persona e poi per un ballerino. Ti permette di mettere in discussione il tuo lavoro quotidiano, di misurarti, di capire che puoi migliorare sempre. La prima cosa che mi hanno insegnato in questa disciplina è di essere umile.

Com’è cambiata la danza?

Dal punto di vista stilistico credo che sia migliorata: le linee, la fisicità, l’atletismo, arrivano a livelli molto più significativi in un tempo decisamente minore. Credo che la preparazione atletica in particolare, sia arrivata a un livello altissimo, i risultati che un tempo si ottenevano con anni e anni di lavoro oggi si ottengono in poco tempo, la tecnica è fruibile un po’ da tutti, molti hanno la capacità di arrivare in alto ma dal punto di vista espressivo c’è qualcosa in meno. L’artista è la persona capace di amplificare i sentimenti umani. Il pubblico vuole commuoversi, emozionarsi e lo fa attraverso l’artista che prova le emozioni e le trasmette al pubblico. Questa capacità è innata, non si può costruire. Oggi abbiamo tanti bravi ballerini ma spesso carenti dal punto di vista espressivo. In più manca l’attenzione politica, economica nei confronti dell’arte, dei teatri che sono diventati dei carrozzoni difficili da tenere in vita, troppo dispendiosi. È difficile avere una programmazione adeguata, una distribuzione artistica all’altezza della varietà che i grandi coreografi del passato hanno prodotto. C’è poca attenzione, pochi soldi, poca scelta, è una questione politica.

Tre aggettivi nei quali si identifica?

Riflessivo, istintivo, buono.

Che cosa la emoziona?

Le piccole cose di ogni giorno. Mi stupisce ancora la capacità dell’essere umano di provare empatia per un altro essere umano.

Che cosa rappresenta Napoli per lei?

Ha contribuito in maniera positivo alla mia crescita personale, le infinite passeggiate nel centro storico con mio padre, i musei, la Cappella Sansevero, la Pinacoteca di Capodimonte, tutta l’espressione artistica di Napoli mi ha arricchito. Sono orgoglioso di far parte di una città piena di fermento, nel 1600-1700 era la New York  di oggi. È un punto di svolta per tanti artisti , io sono napoletano da molte generazioni e sento forte questa appartenenza, nel modo di agire, di pensare, di vivere l’arte.

Che cos’è la danza per lei?

Un’amante. La desideri quando non c’è e la desideri ancora di più quando c’è. Con tutte le conseguenze: l’odio, il rancore…è una contraddizione in essere, dentro di sé.

Elisabetta Testa

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